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133 – La lezione della Cambogia

La lezione della Cambogia di Eugenio Corti (dalla rivista Studi cattolici, novembre 1979)

Se oggi (fine 1979) a differenza degli anni scorsi, si parla anche in Italia – almeno ogni tanto – dei tragici eccidi succedutisi in Cambogia, e non si nasconde più il fatto che circa un terzo della popolazione vi è stato fatto morire, si evita però regolarmente di indagarne le cause.

I politici e i giornalisti dell’area comunista (qui in Occidente praticamente tutti di osservanza moscovita) e i loro numerosi fiancheggiatori, dopo avere per anni presentato i capi Khmer rossi quali rivoluzionari comunisti irreprensibili (ancora nel 1978 l’Unione Sovietica si è opposta per ben due volte alla richiesta che la commissione dell’ONU per i diritti umani fosse investita della questione cambogiana), tendono ora a farli passare per pazzi sanguinari, dalle idee arretrate e sommamente confuse. Altri che, senza essere comunisti, operano nei mass media, per non essere costretti a smentire il proprio atteggiamento filorivoluzionario durante tutta la guerra d’Indocina, e a rendere conto del loro vergognoso silenzio nei tre anni successivi, si adeguano a tale impostazione, o al più danno scontato che in Cambogia “a una vera rivoluzione è stata sostituita una jacquerie permanente, guidata da ottusi professori” . Altri ancora parlano confusamente di fenomeno paleocomunista; nessuno cerca di spiegare davvero.

È difficile per noi (e certo anche per i nostri lettori) di fronte a una realtà che consiste sopratutto in milioni di miserrimi morti, e in sofferenze al di sopra d’ogni immaginazione, inflitte a povera gente del tutto indifesa, ragionare con la debita calma, e adoperarci a trarre razionalmente dei fili da una simile ecatombe; tuttavia riteniamo di doverlo fare, perché questo è precisamente l’unico mezzo che abbiamo per opporci, nei limiti delle nostre modeste possibilità, al ripetersi di simili orrori in futuro […]

Anzitutto chi erano effettivamente i Khmer rossi? I loro capi, che rivestivano nel Paese tutte le cariche maggiori – e cioè il dittatore Pol Pot (alias Saloth Sar), il suo braccio destro e cognato Ieng Sary, nonché Khieu Samphan, Noun Chea, Son Sen (soprannominato Robespierre), e Hou Youn (quest’ultimo presto giustiziato) – erano tutti senza eccezione intellettuali comunisti di estrazione borghese (né più né meno di Marx, Engels, Lenin e Mao prima di loro); inoltre si erano tutti laureati nelle università di Parigi. Jean Lacouture – avendone frequentati alcuni – riferisce che Khieu Samphan e Hou Youn “quando non si controllano, parlano come professori di sociologia” . In effetti sono entrambi laureati in sociologia. Non si tratta dunque di gente arretrata e confusionaria, né ottusa, ma piuttosto del contrario. Il loro fine era di costruire il ‘socialismo integrale’ secondo la visione marxista-leninista-maoista, e di costruirlo ‘in un sol colpo’ , senza cioè incorrere nelle deviazioni e nelle remore che ne hanno prima rallentata, poi in conclusione impedita la realizzazione tanto nelle società dell’ambito sovietico che in quelle dell’ambito cinese.

Com’è che hanno operato cosi incredibili stragi?

Cerchiamo di metterci dal loro punto di vista; qual era il panorama delle società cosiddette ‘socialiste’ – URSS e Cina popolare incluse – che quei rivoluzionari marxisti avevano davanti fin dagli anni della clandestinità? Un panorama per loro sommamente sconfortante. Non solo in nessuna di quelle società si era formato il comunismo (sebbene in Russia vi si stesse lavorando dal lontano 1917); ciò che è peggio, ad onta della loro denominazione, in quelle società non si era formato neppure il ‘gradino inferiore’ del comunismo, cioè il socialismo. Infatti le famose cinque condizioni che secondo Lenin (il quale le riprende da Marx) devono ‘imprescindibilmente’ caratterizzare una società socialista, erano e sono ancora oggi tutte assenti in quelle società: non vi si è potuta abolire la burocrazia, né la polizia, né l’esercito; non si può dare a tutti i cittadini un uguale stipendio da operaio; infine lo stato non vi è affatto in estinzione […]

Già Lenin in Russia (si veda in proposito il nostro precedente saggio ‘Perché è fallito il comunismo in URSS’) dopo aver attuato con la rivoluzione il ‘rovesciamento dei rapporti sociali di produzione’, e dato il via all’incremento in grande stile della produzione s’era trovato di fronte alla constatazione che dalla società sovietica non scomparivano affatto la corruzione, l’egoismo, l’ambizione, ecc. secondo era previsto: in breve che in essa non si formava ‘l’uomo nuovo’. Precisamente questo fatto rendeva impossibile l’introduzione delle famose cinque condizioni ‘imprescindibili’ della società socialista: come si poteva abolire la polizia, se i ladri e i facinorosi seguitavano a pullulare? Come abolire la burocrazia, e affidare a turno a ogni cittadino la direzione delle cose, se chi aveva il potere se lo teneva stretto, e anzi (a cominciare dai capi sovietici) ne era sempre più bramoso? Come introdurre uno stipendio da operaio uguale per tutti, se i dirigenti e gli ingegneri (anche quelli prodotti dalle scuole ‘socialiste’) per tale stipendio si rifiutavano di collaborare? E così via.

Attenendosi rigorosamente alla dottrina, Lenin non aveva potuto far altro che incrementare il più possibile da un lato la ‘repressione’ delle classi ex sfruttatrici e dei nuovi strati ed elementi corrotti che si formavano di continuo nella società, e dall’altro incrementare la produzione di beni materiali, nell’attesa che l’uomo (il quale, nella visione marxista, non è altro che un grumo di materia) arrivasse infine, grazie appunto alla crescente disponibilità di materia, al tanto atteso ‘salto di qualità’: che trasformasse cioè la propria coscienza e la propria natura. Dopo Lenin, Stalin era andato avanti sulla stessa strada con ancora maggior risolutezza, sviluppando sempre più, oltre alla produzione, le ‘repressioni’ prima poi le ‘epurazioni’: fucilando cioè ogni elemento avverso o supposto tale, deportando in appositi lager ‘di rieducazione mediante il lavoro’ masse crescenti di cittadini (inclusi comunisti di tutti gli strati, dai più bassi ai più alti), infine costringendo i restanti membri della società a una critica e a un’autocritica continue, che li spogliassero dall’egoismo e dalla corruzione. Non abbiamo qui spazio per soffermarci oltre sulla terribile vicenda: ci basterà ricordare che se la Russia progredì grandemente nella produzione dei beni materiali (nell’industrializzazione), neppure una delle condizioni della società socialista vi poté tuttavia essere introdotta, mentre le vittime crebbero fino a decine di milioni (a 66 milioni secondo le statistiche di Kurganov-Solgenitsin). Analogo fenomeno si è verificato nelle altre società ‘socialiste’, e anche in Cina dove, nonostante l’apporto originale maoista, contrariamente a quanto si seguita oggi a credere in Occidente, il numero delle vittime è stato più elevato che in Russia.

I capi-ideologi Khmer al momento della loro presa del potere avevano davanti agli occhi tutto questo. Lungi dal rendersi conto che la costruzione della società è comunista è semplicemente impossibile, essi hanno ritenuto necessario procedere con una risoluzione ancora maggiore, e più radicalmente. Se in Russia la morte di Stalin i deportati nei lager ‘di rieducazione’ erano 15 milioni; se in Cina nel ’71 (ultimo per cui abbiamo i dati) i deportati erano intorno milioni, i capi comunisti Khmer il giorno stesso della presa del potere hanno deportato oltre metà della popolazione del loro sventurato Paese (tutta quella rifugiatasi nelle sacche nazionaliste). Aggiungendosi la gente già da essi deportata in precedenza nelle zone in loro possesso, si arriva (stando a Wieslaw Gornicki, dell’agenzia comunista polacca Interpress, che fu uno dei primi a visitare la Cambogia dopo la fuga dei Khmer rossi) a circa l’80% della popolazione: in tal modo praticamente tutta la Cambogia venne trasformata in un enorme lager. Non si creda che noi ci esprimiamo qui in modo approssimativo o arbitrario: le condizioni dei cambogiani erano precisamente quelle dei deportati nei lager staliniani e nazisti: non soltanto essi lavoravano come autentici forzati, e la loro mortalità era altissima, ma – fenomeno tipico dei lager – in circa il 90% delle donne era scomparso il ciclo mestruale.

Contemporaneamente alla deportazione, i capi Khmer diedero inizio all’eliminazione fisica di tutte le persone in qualche modo ‘contaminate’ dal capitalismo (cioè, in Cambogia, dal colonialismo) (, procedendo all’annientamento degli ex detentori del potere, ex detentori dell’avere, ed ex detentori del sapere. Il primo gruppo (funzionari statali, amministrativi, di villaggio, militari d’ogni grado, poliziotti, ecc.) e il secondo gruppo (proprietari anche soltanto di un fazzoletto di terra, commercianti anche ambulanti, ecc.) furono completamente sterminati. Per il terzo gruppo (includente chiunque sapesse leggere e scrivere) non ce ne fu il tempo; però il numero degli analfabeti in Cambogia è passato tra il 1975 e oggi dal 60% al 93%.

Complessivamente le vittime furono, in circa tre anni, vicine ai 3 milioni, su 7 milioni di abitanti che annoverava il paese al momento della vittoria comunista (nell’aprile 1975): furono dunque superiori a un terzo dell’intera popolazione. L’obiettivo al riguardo dei capi-ideologi Khmer era contenuto in una terrificante circolare da loro distribuita alle autorità provinciali già nel febbraio del ’76, che venne portata in Thailandia da un capo Khmer profugo: “Per costruire la Cambogia nuova un milione di uomini è sufficiente” (da François Ponchaud, in Le Monde del 18 febbraio ’76, e altrove). Nel frattempo tutti i compiti di qualche importanza nella società venivano, per quanto possibile, affidati a bambini e ragazzi non contaminati dal capitalismo’ a motivo della loro età.

Nel dicembre del ’77 ebbe però inizio la pressione militare da parte del Viet Nam (circa 50 milioni di abitanti): i Khmer rossi si accorsero allora d’aver spopolato il proprio paese, e programmarono (aprile ’78 di portarne in quindici anni gli abitanti a 20 milioni, come si trattasse di animali e non di esseri umani. A un tale piano ostavano in ogni caso le condizioni fisiologiche della popolazione femminile, di cui si è detto più sopra: in Cambogia nascevano ormai pochissimi bambini, e ne sopravvivevano ancor meno. Finalmente il 1° gennaio 1979 scattò l’invasione vietnamita, Phnom Penh cadde il 7 gennaio.

Si pone a questo punto la domanda se i capi-ideologi Khmer si richiamassero al marxismo legittimamente. Dobbiamo rispondere che sì. Certo Marx – il quale pronosticava che la società comunista si sarebbe formata negli ambiti industrialmente più progrediti – non aveva prevista un’impresa come quella tentata in Cambogia. Se però si sono accettati – come dai più importanti teorici del marxismo si sono accettati – gli apporti dati da Lenin a Marx per teorizzare la rivoluzione in una società industrialmente arretrata; e poi si sono, allo stesso modo, accettati gli apporti dati da Mao a Lenin per teorizzare la rivoluzione in una società contadina, non si può considerare arbitrario il tremendo tentativo di attuazione cambogiano. Del resto senza le originalità teoriche di Lenin, di Mao, e dei capi Khmer, a cosa si ridurrebbe oggi il sistema di Marx, se non (per usare l’espressione di Kautsky) a “un vecchio libro polveroso” le cui previsioni non si sono affatto avverate nelle società progredite? Di fatto, qui come dovunque, quando dalla teoria si è passati alla realizzazione pratica, non è stato possibile seguire altra via che quella degli apporti e sviluppi.

Altra domanda fondamentale: i capi-ideologi Khmer sono riusciti nel loro intento? Sono cioè arrivati a costruire il ‘socialismo integrale’? Dobbiamo rispondere di no. Bisogna tuttavia riconoscere che la loro società è stata, fino a oggi, quella che si è obiettivamente avvicinata di più al modello prospettato da Carlo Marx. Tutto vi era infatti collettivo, la burocrazia assente, assente il denaro che era stato abolito, tutti vi ricevevano un identico stipendio (la scodella di riso appena bastante al sostentamento), vi erano scomparse totalmente la proprietà e la religione, nessuno (dei privati almeno) poteva più organizzare lo ‘sfruttamento’ degli altri, e se qualcuno vi aveva ancora il potere, questo era per intero concentrato nelle mani dei relativamente pochi Khmer rossi – in gran parte, come s’è detto, giovanissimi e irresponsabili – i quali, più che esseri umani, apparivano una sorta d’incarnazione della ‘violenza come levatrice della società nuova’. Che poi, in pari tempo, tale società sia stata anche – obiettivamente – la più atroce fra tutte quelle in cui si è cercato di realizzare il marxismo (ancora più atroce della contemporanea società albanese di Enver Hoxha, lui pure intellettuale d’estrazione borghese, lui pure formatosi in una università di Parigi) è constatazione che non infirma il presente discorso.

Per avanzare fino a quel punto i capi-ideologi Khmer hanno dovuto sacrificare circa un terzo dei loro sventurati connazionali. Non sono tuttavia pervenuti al ‘socialismo integrale’: se quegli ideologi avessero avuto il tempo per ridurre – com’era nel loro programma – il popolo cambogiano a un solo milione di giovanissimi, si sarebbero accorti con sorpresa che neppure quelli erano incontaminati’. Andando ancora avanti nel tentativo di eliminare, coi procedimenti suggeriti dal materialismo dialettico, la corruzione dalla coscienza e dalla natura dell’uomo, essi sarebbero arrivati a eliminare totalmente l’uomo. Fuori d’ogni paradosso, è ormai evidente che la tanto auspicata ‘società comunista’ non potrebbe essere che una società di tutti morti.

Attualmente la popolazione cambogiana, a causa delle manipolazioni e violenze di ogni genere cui è stata sottoposta, versa in uno stato di shock tremendo, da cui non sembra riaversi: “I sopravvissuti passano la maggior parte delle loro giornate alla ricerca dei parenti scomparsi” testimonia il dottor Urban, dei ‘medici senza frontiere’. Molta di questa misera gente sradicata infatti vaga qua e là in gruppi per tutto il paese […]

Intanto, come riferisce Edward Behr in Newsweek del 24.9. ’79, “il raccolto principale, che viene seminato in maggio, e mietuto in dicembre-gennaio, non è stato neppure piantato”. Al riguardo gli informatori sono concordi. “La semina del riso non è stata fatta” si legge ne La Croix del 10.8.’79, “non ci sarà dunque un nuovo raccolto, e tutto è in abbandono. Non ci sono più colture, non ci sono più medicine, la fame e la malattia sono dappertutto”. Ciò è confermato dai non molti visitatori cui è stata concessa dai conquistatori vietnamiti l’entrata in Cambogia: chi attraversa il paese, vede i resti delle ex risale private abbandonate da anni, nonché qua e là le grandi risaie dell’Angkar. Cioè dell’organizzazione dei Khmer rossi, maggior parte non è coltivata.

Anche chi giunge nel paese in aereo, nota subito una grande differenza rispetto alla campagna delle nazioni circostanti: in Cambogia la campagna non è affatto verde, tranne per poche chiazze, per il resto è di un uniforme colore bruno. Secondo l’autorevole quotidiano Le Monde (il quale dopo avere pervicacemente sostenuto i comunisti durante la guerra – da qualche anno si dimostra, grazie al Cielo, molto preoccupato per la sorte della popolazione) “solamente il 5% delle terre è coltivato, si hanno 10 morti per ogni nascita, gli uomini tra la popolazione adulta sono solo dal 20 al 30%”.

Tutti vorrebbero fuggire, andarsene (tornano in mente le parole di mons. Seitz a proposito del Viet Nam, da cui “se potessero, fuggirebbero anche le pietre”): ma qui la situazione è ancora più tragica […]

Sebbene ostacolati in vario modo dai nuovi padroni pur sempre comunisti, gli occidentali e l’ONU si sono frattanto messi in movimento per l’invio di soccorsi. In particolare l’UNICEF sta predisponendo un pian6 di salvataggi dei bambini in età dai 5 ai 9 anni (bambini di meno di 5 anni in Cambogia ne sopravvivono pochissimi, per cui s’era diffusa la voce che secondo l’UNICEF non ne esistessero più, e che non ci fossero neppure più donne incinte; l’ufficio dell’UNICEF di Bangkok ha però smentito, dichiarando che “stima esagerato avanzare una simile affermazione”. Viene in ogni caso fatto presente che non esistono mezzi meccanici per lo scarico e la distribuzione dei viveri; siccome poi gli uomini che dovranno eseguire tali lavori “sono precisamente, il più delle volte, dei moribondi”, i colli “dovranno essere pesanti poco più di dieci chili ciascuno”.

Questo è, in breve, lo stato cui è ridotta oggi la popolazione, dopo il folle esperimento al quale è stata sottoposta – contro la sua volontà – dai comunisti, e da quanti nel mondo intero (laicisti, intellettuali, ‘progressisti’ d’ogni genere, cristiani dalle idee confuse, mass media d’ogni tipo e livello, inclusi quasi tutti i grandi giornali italiani), si sono con tanto impegno dati da fare perché i comunisti potessero effettuare indisturbati il loro esperimento.
(© L’esperimento comunista, Ed. Ares, Milano 1991, pp. 141-53).

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