Ricordare…

019 – Emilia

L’Emilia era allora dominata da Ilio Barontini, fedelissimo di Secchia, capo dell’ala dura e “militarista” del partito, ai cui ordini obbediva. La base era con lui e sognava la rivoluzione armata. E, perciò, nei paesi della “bassa” reggiana e modenese, chi si opponeva veramente al predominio comunista, anche se si trattava di un antifascista, veniva messo a tacere e, se resisteva, eliminato.

Sarà utile ricordare che proprio le regioni che erano state le più fasciste, cioè la Toscana e l’Emilia, furono quelle in cui il “frode-pop“, come lo chiamava Giovannino Guareschi, raggiunse maggioranze tipiche dei paesi “satelliti“: a Carpi, per esempio, quasi l’ottanta per cento dei voti. E fu giusto con riferimento a questo fatto che un giornale inglese scrisse che gli italiani erano novanta milioni: quarantacinque di fascisti e quarantacinque di antifascisti.

Modena era letteralmente dominata dai rossi: della polizia facevano parte anche alcuni partigiani che, poi, sarebbero stati condannati a pene durissime per gli omicidi che avevano commesso prima e dopo la Liberazione.
E si trattava di delitti che con la lotta contro il fascismo non avevano nulla a che vedere.

Quanto poi alla provincia, i carabinieri arrivarono nei singoli paesi solo nel 1946, non trovando spesso nemmeno le caserme dove essere alloggiati; e, non avendo nessuna possibilità di svolgere indagini sul passato, dovevano limitarsi a cercare di garantire per il presente un minimo di ordine pubblico.

Bisogna poi considerare che il Pci disponeva di una struttura armata, con quadri militari decisissimi, che facevano capo, per così dire, alla citata anima “militarista” di Pietro Secchia: questa struttura è esistita per molti anni, non sappiamo con precisione quanti, certo ben oltre il 1950.

A questo proposito ricordiamo incidentalmente che, quando fu concesso un termine ultimo per la consegna delle armi che doveva avvenire nelle mani dei carabinieri, seppi dal colonnello che comandava tutti i carabinieri della provincia che, a suo giudizio, le armi consegnate non superavano il venti per cento.
E ciò perché a troppi era stata promessa — anche da capi autorevoli — la presa del potere attraverso l’insurrezione armata: alcuni capi partigiani spargevano il terrore e lasciavano esplodere la furia omicida.

Per dare un’idea dell’atmosfera che gravava sull’Emilia nell’immediato dopo-guerra, basterà ricordare la sentenza emessa dalla Corte di Assise – Sezione Speciale di Forlì il 26 febbraio 1946.

Un ufficiale tedesco era stato ucciso in località Pieve di Rivoschio (Forlì) nell’agosto del 1944: e i tedeschi, che si diceva fossero stati accompagnati da alcuni “repubblichini“, avevano fucilato, per rappresaglia, il 21 agosto 1944, diciannove persone scelte tra centocinquanta sospettate di favoreggiamento dei partigiani. Ma sulla identità dei tre “repubblichini“, che avrebbero accompagnato i tedeschi, nulla si sapeva. Comunque, dopo la Liberazione, furono arrestati “molti collaborazionisti“: tre fra loro, che si diceva fossero tra quelli che avevano partecipato alla rappresaglia dei tedeschi, furono tratti a giudizio, anche se a loro carico non esisteva ombra di prova. E la Corte di Assise di Forlì ‘Sezione Speciale‘ ne condannò due alla pena di morte e uno a trenta anni di reclusione. Mi sono procurato copia dell’originale della sentenza, emessa in nome di Umberto II, Principe di Piemonte e Luogotenente Generale del Regno. è composta di due pagine e vi si legge, tra l’altro:

La requisitoria [del Pubblico Ministero] applaudita dalla folla che assiepava l’aula, ha avuto un’eco da parte di alcuni che hanno gridato “a morte, a morte”, nel momento in cui la Corte si ritirava per deliberare.
Sotto la pressione di quest’ambiente, tutt’altro che sereno e spassionato, specie dopo le invettive lanciate con fervore da una delle parti offese, il Collegio non potè non decidere in conformità della richiesta del Pubblico Ministero, superando la questione se il minorenne abbia agito con capacità di intendere e di volere e se il perdono giudiziale possa essere accordato.
[… Perciò la Corte] dichiara Beltrami Arnaldo, Beltrami Romano e Landi Ezio colpevoli dei delitti loro ascritti con l’attenuante dell’art. 98 C.P. per Beltrami Arnaldo e condanna quest’ultimo alla reclusione per anni trenta: Beltrami Romano e Landi Ezio alla pena di morte, con le conseguenze di legge, ivi comprese le spese.

La sentenza, avendo l’estensore, il Presidente Avezzana, adottato una motivazione spudoratamente suicida, fu poi annullata senza rinvio dalla Cassazione il 28 giugno successivo, e cosi i tre imputati poterono essere rimessi in libertà.
(avv. Odoardo Ascari)

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