Ricordare…

046 – I crimini Alleati – i campi di concentramento)

Other Losses, ovvero quanto è difficile per uno storico fare accettare una verità non ufficiale.

Quella che non si trova sui libri di storia.

Criticato aspramente negli Stati Uniti e in Francia, oggetto di pesanti accuse anche a livello accademico, James Bacque non si è perso d’animo. Il suo Other Losses, best-seller in Canada, tradotto in francese, in tedesco e presto in italiano (Gli altri lager, i prigionieri tedeschi nei paesi alleati, Mursia) ha scatenato un putiferio.

Bacque è stato accusato di revisionismo da Stephen Ambrose, professore all’università di New Orleans, di nazismo o di apologia del nazismo da più di un giornalista.

In particolare negli Stati Uniti «Il New York Times ha detto molte bugie sul mio libro. E sui prigionieri di guerra continua a mentire da oltre 45 anni», dice Bacque in un’intervista esclusiva a L’Italia settimanale, lamentando il fatto che il quotidiano non abbia voluto pubblicare nessuna delle lettere di precisazione da lui inviate.

Ma cosa ha detto Jamer Bacque di tanto blasfemo?

Che nei campi di prigionieri tedeschi nelle mani degli americani e dei francesi si stava male, anzi malissimo. Che le condizioni di vita lì non erano molto diverse da quelle dei Gulag e dei Lager nazisti. Che tra il 1945 e il 1946 almeno ottocentomila soldati tedeschi (ma non solo soldati e non solo tedeschi, ci tiene a precisare Bacque: in mezzo c’erano anche italiani) morirono di fame, sete, malattie.

A Mosca, negli archivi del Nkvd (il predecessore del Kgb), Bacque ha trovato conferma di quanto sostiene. La sua tesi è stata “ampiamente accettata e condivisa” in Germania. In Gran Bretagna le reazioni sono state ambivalenti. Dopo un iniziale interessamento, un editore giapponese ha deciso i sospendere la pubblicazione. E’ stato prontamente sostituito da un’altra casa editrice.

A chi lo accusa di aver esagerato l’entità delle “altre perdite“, Bacque risponde «andate a leggere gli archivi dell’Nkvd. Le memorie scomparse degli archivi i Stato di Washington, Parigi e Londra, li ci sono tutte. Anche se i russi non erano certo teneri nei confronti dei tedeschi: il loro obiettivo era quello di trasformare i tedeschi in schiavi».

Schiavi? E perché? L’autore non ha dubbi: «Perché i russi erano stupidi».

Prigionieri italiani in Usa: nemici o alleati?

Tra i prigionieri di guerra degli Americani c’erano anche 50 mila italiani, catturati sulle coste nord-africane e in Sicilia e trasferiti negli Stati Uniti tra il 1941 e il 1943.

La maggior parte fu catturata dagli inglesi.

I racconti di questi soldati, marinai e avieri, rivelano non solo l’orrore della guerra, ma le condizioni disperate nelle quali anche i più valorosi furono costretti ad arrendersi.

Louis Keefer, nell’esercito americano tra il ’43 e il ’46 e pubblicista nel settore bellico dopo la Seconda guerra mondiale, ha dedicato a questo argomento Italian prisoners of War in America, 1942-1946 Captives or Allies (dicembre 1992, Praeger Publishers – New York) basandosi sulle testimonianze di ex prigionieri di guerra italiani, Keefer ha ricostruito l’odissea dei nostri connazionali in viaggio coatto verso le coste americane, e la loro esperienza diretta come prigionieri. Secondo Keefer la maggior parte del personale dell’esercito Usa addetto ai “Pows” rispettava scrupolosamente, almeno in un primo momento, le regole fissate dalla Convenzione di Ginevra: tra le altre il trasferimento immediato dalle zone di combattimento, un adeguato sostentamento e un’adeguata assistenza sanitaria, la possibilità di inviare e ricevere posta.

Ma, ciononostante, si verificarono molti “incidenti“, tra cui l’uccisione di prigionieri italiani e tedeschi che cercavano sollievo dalle infezioni intestinali dovute al terribile clima del deserto africano “liberandosi” in prossimità di trincee vicine al filo spinato. Keefer, come Bacque, solleva inoltre pesanti dubbi sull’affidabilità del coverage della vita dei prigionieri di guerra da parte di quotidiani come il New York Times.

In particolare quest’ultimo, sostiene infatti Keefer, verso la fine del ’43 cominciò a descrivere gli italiani prigionieri a Pine Camp, nei pressi di New York, come «gente disciplinata, pulita, energica, cooperativa e timorata di Dio». L’unica differenza tra gli italiani e i soldati americani (i “G.I.”, “Government Issues“) era «quel piccolo crocifisso al collo».

Dal quadretto idilliaco che dipingeva il New York Times, insomma, gli italiani emergevano come gente allegra, vitale, alla mano, tutto sommato contenta si stare lì.

Beati loro… una storia molto diversa è quella raccontata da chi nei campi di prigionia in America c’è stato sul serio. Nella primavera del 1945 il ministero della Guerra ridusse drasticamente l’ammontare giornaliero di calorie destinato ai prigionieri italiani. Le motivazioni addotte avevano un carattere di rappresaglia: alcuni soldati americani erano tornati dai campi di prigionia tedeschi ed avevano detto di essere stati malnutriti. Molti italiani prigionieri in America furono inoltre assegnati a lavori rischiosi, in alcuni casi fatali, e comunque ben al di là dei limiti fissati dalla Convenzione di Ginevra.
(Olocausto americano con vittime tedesche di Daniela Cavallari)

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